Per 15 mesi la morte non ci ha sconfitto.
Hadeel Awad
Scrittrice e infermiera che vive a Gaza.
Pubblicato il 28 gennaio 2025 su Aljazeera.com
Un cessate il fuoco è finalmente arrivato. Dopo 15 mesi di guerra genocida senza sosta, possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo. Molti di noi sono anche riusciti a tornare alle nostre case o a ciò che ne resta.
Mentre ci godiamo questo tempo senza bombardamenti, il mondo sembra impegnato in un acceso dibattito su chi ha vinto. Israele ha trionfato? E’ Hamas che può cantare vittoria? Oppure i vincitori sono gli eroici palestinesi?
Sono un’infermiera, non un’esperta, quindi non ho risposte da offrire. Ma lascia che te lo dica, caro lettore: il mondo non dovrebbe lasciarsi ingannare dalla nostra sopravvivenza. Restare in vita a Gaza non è sinonimo di eroismo. Sfuggire alla morte non è una vittoria. Ce l’abbiamo fatta per un pelo. Decine di migliaia di palestinesi non ce l’hanno fatta.
La guerra genocida ha chiuso il tempo in un circolo. Non c’era un inizio o una fine, nessuna destinazione verso cui ci stavamo muovendo. Abbiamo continuato a girare in tondo, ogni giorno, ritornando alla partenza.
Ogni giorno, ogni famiglia doveva uscire alla ricerca di acqua potabile, acqua per lavarsi, cibo e qualcosa con cui accendere il fuoco: le cose più basilari. Per ottenere tutto questo ci volevano ore, sempre che ci si riuscisse. Per trovare il pane(che pensavamo fosse scontato, un diritto) bisognava lottare. Le famiglie avevano finito i soldi. Le organizzazioni umanitarie avevano finito le razioni. A un certo punto, persino la farina contaminata dagli insetti e il cibo in scatola scaduto sono diventati un lusso.
Questo circolo veniva spezzato solo dalla malattia o dalla morte. Le persone interrompevano questa routine per seppellire i propri cari e piangere la loro morte.
Il mondo esterno ha visto molte immagini e video delle morti violente di bambini, donne e uomini palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Ma non ha visto le altre morti, silenziose e dolorose, dei malati cronici o di persone colpite da malattie curabili.
Abbiamo avuto persone con infezioni morte a causa dell’assenza di antibiotici. Abbiamo avuto persone con problemi renali morte perché a un certo punto la dialisi era disponibile solo di tanto in tanto e solo in pochissime strutture mediche. Queste morti non sono state aggiunte al bilancio ufficiale delle vittime del genocidio, ma molte di esse erano prevenibili.
Nei vicoli delle tendopoli degli sfollati si vedevano i sopravvissuti afflitti, singhiozzanti o seuduti in silenzio. Dopo essere sfuggiti alla morte, anche loro tornavano nel circolo del tempo.
Dopo così tanti mesi di perdita collettiva, oppressione e desideri insoddisfatti, sembrava che non ci fosse più spazio nel cuore per fuggire ulteriormente dalla morte. Io, come molti altri palestinesi, sono diventata spaventosamente calma, insensibile.
Poco tempo prima riempivamo la terra di rumore, sorrisi e vita. Portavamo in noi grandi sogni e speranze. Ma ora non riuscivamo più a riconoscerci. “Non somigliamo più a noi. Non siamo più noi!” pensavamo.
La sofferenza collettiva era così assoluta, così schiacciante che sembrava non esserci un posto dove cercare conforto, nessuno a cui raccontare cosa stesse succedendo dentro, perché tutti si trovavano nello stesso luogo oscuro.
Ma la cosa strana del dolore e della morte di massa, caro lettore, è che ti spingono ad aggrapparti alla vita, a dispetto di tutto, soprattutto a dispetto dell’occupante. Tutto a Gaza ci sollecitava a morire, ma abbiamo imparato a crearci una vita da tutto ciò.
Noi non siamo più noi, ma non siamo morti. Nuove versioni di noi sono state create per continuare la lotta, per vivere ancora.
Nel cerchio infinito del tempo, le persone avevano comunque troamodi per provare soddisfazione o un senso di scopo. Io lo feci facendo volontariato come infermiera in una clinica improvvisata e facendo lunghe passeggiate in cerca di caffè. Questi erano i miei atti di sfida, di vita.
La fame mi ha fatto pagare il prezzo, ma ho cercato di vedere l’altro lato della medaglia. Spesso mi sono fatta una risata pensando di aver finalmente raggiunto la perdita di peso che avevo tanto desiderato e che non ero mai riuscita a raggiungere con tutte le diete sane che avevo provato in passato.
Ho visto il bianco invadere i capelli di mia madre nella dura vita in tenda. Ma ci siamo anche fatte una risata. Sapevo che questi colori non l’avrebbero sconfitta. Ama i colori ed è la donna più abile nel sottometterli per adattarli a sé.
Dopo 15 mesi di inferno, siamo usciti dai nostri rifugi e dalle nostre tende per vedere uno scenario apocalittico. Continuiamo a contare i morti tirati fuori dalle macerie, identificabili solo da una scarpa o una maglietta.
Guardo attraverso la distruzione e vedo noi, i sopravvissuti. La morte non ci ha sconfitti, non perché siamo eroi, ma perché siamo persone che amano la vita. Caro lettore, aggrapparsi alla vita è una vittoria?
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