Quando si parla di antifascismo si parla di resistenza e oggi la resistenza che vogliamo celebrare è quella del popolo palestinese.
L’atto di genocidio è parte di un continuum”: l’attacco del 7 ottobre, s’inserisce nel contesto di 75 anni di apartheid, 56 anni di occupazione e i 16 del blocco di Gaza che ha di fatto negato l’assistenza sanitaria ai bambini il che è non solo disumano ma rappresenta una violazione dei loro diritti.
16 anni di blocco e le ricorrenti escalation di violenza hanno fin ad oggi rappresentano una minaccia costante per la vita dei bambini e le restrizioni imposte dal blocco hanno contribuito ad aumentare il tasso di povertà e la carenza di supporti sanitari nel mercato locale.
La malnutrizione è stata per anni dominante tra le famiglie che vivono in “aree ad accesso limitato” vicine al confine israeliano e che sono testimoni di frequenti attacchi: non hanno mai avuto i servizi di base, infrastrutture pubbliche adeguate e hanno più volte dovuto affrontare malattie trasmesse dall’acqua, dall’inquinamento e dai rifiuti solidi. Il 10% delle famiglie intervistate da Save the Children ha riferito di aver perso un figlio per cause prevenibili, prima che compisse 5 anni.
Nella prima intifada (1987) ricordiamo la frase di Yitzhak Rabin, ministro della difesa per spezzare la resistenza palestinese: “ai ragazzini che tirano le pietre spezzategli gambe e braccia”
Molti ricordano non solo le immagini degli adolescenti che lanciano pietre, ma anche le immagini di quegli stessi adolescenti a cui i soldati spezzano sistematicamente braccia e a volte anche gambe. Nonostante questo, la resistenza continuò e per tutto il primo anno fu sostanzialmente nonviolenta, a parte il lancio di pietre da parte di bimbi e ragazzi. Infatti, in questo primo anno di Intifada, non ci furono morti nell’esercito israeliano, mentre 204 palestinesi furono uccisi, e di questi circa la metà erano minorenni. I video dei soldati che spezzavano le braccia a ragazzini fecero rabbrividire l’opinione pubblica.
Dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza, Israele ha ucciso oltre 33.000 palestinesi di cui oltre il 70% donne e bambini; ha causato l’evacuazione forzata di 2 milioni di palestinesi (popolazione civile); sta costringendo alla fame e alla sete la popolazione assediata, producendo danni fisici, traumi psicologici, non ha provveduto e anzi ha deliberatamente bombardato zone sicure; ha devastato il sistema sanitario fino a distruggere 26 ospedali su 36 e decine di ambulanze uccidendo medici e infermieri, distrutto la vita comune dei palestinesi; sradicato la memoria storica e ucciso figure preminenti della società civile; non ultimo, ha compromesso la nascita stessa dei palestinesi attraverso la violenza riproduttiva inflitta alle donne palestinesi, ai neonati, agli infanti e ai bambini.
Centinaia di famiglie multigenerazionali spazzate via, ordini di evacuazione per oltre un milione di persone (compresi bambini e anziani, feriti e infermi, da effettuarsi in 24 ore senza alcuna assistenza e con bombardamenti sulle vie dichiarate sicure). Umiliazione dei prigionieri, sostanziale blocco di tutti gli aiuti umanitari e ripetuti bombardamenti dei punti di distribuzione, distruzione sistematica di case, scuole, università, moschee, chiese, infrastrutture di ogni tipo. A tutto questo si aggiunge il sadismo di soldati israeliani che postano le loro imprese sui social, indossando indumenti intimi rubati a donne palestinesi, esibendoli come trofei. Uno di essi, tenendo in mano i calzini di una bambina di Gaza, scrive:”Le mie vecchie passioni, sport e scrittura; la mia nuova passione, annusare i calzini di una bambina di cinque anni due volte al giorno per quattro mesi.”
Alcune testimonianze: “Il primo paziente che ho visto era una bambina di un anno. Senza gambe. Amputata dall’esplosione. Non sapeva ancora camminare e aveva già perso le gambe» (Paul Ley, 60 anni, ortopedico della Croce Rossa). «Dormiamo in dieci in uno sgabuzzino della mia scuola. La coda per il bagno è così lunga che regolarmente, prima del mio turno, me la faccio addosso» (Ghazal, 14 anni, sfollata a Khan Younis). «Mi metto in fila dal panettiere alle 6 del mattino. Arrivo al pane verso mezzogiorno, ma certe volte il pane è finito» (Kenan B., 10 anni).
«Quando la guerra finisce, voglio diventare poliziotto. E arrestare chi ci ha fatto questo» (Abud S., 10 anni, di Rafah). «Non abbiamo cibo e beviamo acqua non potabile. Ora veniamo qui a gridare a voi e chiedervi di proteggerci. Noi vogliamo vivere come tutti gli altri bambini» (appello ai media, letto da 14 ragazzini davanti all’ospedale Al Shifa). «Dal 7 ottobre, Gaza è il posto più pericoloso al mondo dove crescere un bambino» (rapporto Unicef).
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