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Gaza Interviste

“Violenza continua: mai una tregua, mai una pausa” – intervista ad un’operatrice umanitaria che ha lavorato a Gaza

Pubblichiamo il testo di un’intervista, realizzata il 3 luglio di quest’anno, a un’operatrice umanitaria che ha lavorato nella  striscia di Gaza (nella zona di Khan Younis) in ambito sanitario.

Domanda: Com’è la situazione dei pazienti con malattie croniche o comunque malattie che non dipendono direttamente dalla guerra?

Come si riesce ad andare avanti nella cura di queste persone quando ovviamente poi ci sono anche tante altre che hanno bisogno di cure per via della guerra, feriti dai bombardamenti eccetera? Come si trova una sorta di equilibrio tra queste due situazioni?

Risposta: Con il sistema sanitario al collasso, tantissime e tantissimi pazienti che soffrono di malattie croniche (soprattutto diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari), si ritrovano senza medicinali, con poco accesso alle cure, quindi arrivano magari negli ospedali già in sofferenza acuta, già esacerbati e gravi.

Questo ha un impatto ancora più forte sugli ospedali che già sono al collasso, sono iper-oberati e che si ritrovano a dover gestire non solo la quota di traumi legata alle esplosioni, alle sparatorie e quant’altro, ma anche i bisogni medici legati a questi pazienti che purtroppo arrivano riacutizzati.

Anche a noi è capitato di avere dei problemi per le medicine dei pazienti cronici, da quando il valico di Rafah è stato chiuso, il 6 maggio, purtroppo ad un certo punto abbiamo iniziato ad avere carenza di questi medicinali e sappiamo bene che un paziente cronico senza medicinali sicuramente andrà a riacutizzarsi e ciò avrà un impatto importante sul sistema sanitario.

E poi c’è tutta la fetta di pazienti dializzati che sono tanti, sia adulti che bambini e al momento, ad oggi gli unici due ospedali che riescono ad offrire il servizio sono quello di AlAqsa e quello di Nasser solo in piccola parte. E comunque il servizio di dialisi ha bisogno di acqua, ha bisogno di igiene, ha bisogno di elettricità e di strutture appropriate. Al momento è molto difficile averle e quindi anche questo servizio esplode di pazienti.

Ci sono tantissimi pazienti in attesa e non c’è soluzione.

Per i traumi molte volte è almeno possibile creare degli ospedali da campo basici che abbiano qualche sala operatoria e una possibilità di degenza, invece il servizio di dialisi è uno di quei servizi che ha bisogno di tante risorse, quindi non è banale sostituirlo. Quando un ospedale viene distrutto oppure viene evacuato e si perde quel servizio, non è poi banale riposizionarlo in altri posti: in sintesi, questa è un po’ la situazione dei malati cronici.


D:
Parlando di persone che hanno perso la vita, quanto ha inciso questa parte di malati cronici? Sicuramente molte delle morti dipendono dalle bombe, da cecchini e da sparatorie, ma c’è una percentuale importante di decessi anche da chi subisce la guerra senza venire colpita direttamente dalle armi?

R: Sicuramente si continua a morire anche per patologie mediche. Banalmente, se tu hai una patologia medica e corri in pronto soccorso, quando arrivi lì il pronto soccorso è oberato e non può accoglierti perché c’è un afflusso massivo di feriti: durante il mio servizio, ma anche adesso, è una delle condizioni che durante la giornata si ripete più volte.

È chiaro che così il paziente aspetta e molte volte perde la vita perché comunque ci sono delle priorità. C’è un sistema di triage che è stato ridotto all’osso per riuscire a rispondere ai bisogni. Non è una scelta banale: ti confermo che sì, sicuramente i pazienti cronici oncologici non stanno ricevendo le cure perché anche loro sono al momento in lista d’attesa.

Il Ministero della salute palestinese spesso ha chiesto alle organizzazioni umanitarie di coprire questa parte di cure mediche. Però chiaramente la risposta delle organizzazioni umanitarie finora è sempre stata: “copriamo dove c’è più bisogno in questo momento e al momento non si può fare tutto!”.

Quindi al momento le organizzazioni si impegnano per coprire soprattutto le situazioni dei pazienti “in acuto”.

Poi certamente cercano anche di coprire la parte dei pazienti cronici che hanno bisogno di medicinali per non diventare acuti. Però, per esempio, anche i pazienti oncologici sono pazienti dimenticati ed è importante tenerne conto. Soprattutto perché anche quelle sono delle morti che avvengono e si potrebbero evitare.


D:
Hai parlato anche di presidi sanitari distrutti e difficoltà nel sostituirli o riorganizzarli. Volevo chiederti intanto quante strutture sono state distrutte, se lo sai, e poi se ci puoi spiegare quante sono ancora attive e come riescono ancora a funzionare. In ultimo come voi vi siete inserite in questa situazione.

R: Sì, anche le strutture sanitarie sono diventate dei target oppure hanno ricevuto ordini di evacuazione o altro. E anche la nostra organizzazione è stata obbligata a spostare moltissime volte il proprio personale, le proprie attività a livello ambulatoriale o di supporto all’ospedale.

Il punto di base è che non esiste veramente un luogo sicuro, quindi anche le strutture sanitarie vengono attaccate molte volte dalle IOF [Israeli Occupation Forces, ndr], anche se non dovrebbero perché in realtà dovrebbero essere considerate escluse dai conflitti per il loro ruolo.

Vuol anche dire che anche se IOF le ha indicate come luoghi sicuri, poi nella pratica è accaduto il contrario e molti posti hanno ricevuto l’ordine di evacuazione. Questo significa che tutti i pazienti sono stati spostati così come il personale medico, il materiale e tutto il resto.

Lo stesso personale medico è diventato un bersaglio, un target. Considera che più di 500 appartenenti al personale medico sono state uccisi e più di 300 arrestati.

E’ una situazione complessa dove è difficile riorganizzare le cose, se si tratta di un ambulatorio si riesce a spostarlo, si sposta l’ambulatorio, si spostano le attività. Ma se a diventare un bersaglio è un ospedale, considerato che ce ne sono pochi funzionanti, tutto diventa molto più complicato.

Già nelle settimane prima dell’inizio dell’invasione di Rafah cominciata il 6 maggio 2024 il Ministero della Salute aveva cominciato a pensare di spostare gli ospedali.

Hanno cercato di prevenire il problema in base anche alle esperienze passate, in cui avevano deciso di rimanere negli ospedali che poi però sono diventati bersagli. Quindi prima dell’invasione avevano spostato, ad esempio, tantissimo materiale, macchinari e medicinali dall’ospedale di Najjar a Rafah perché ci si aspettava che sarebbe diventato uno dei primi posti a cui sarebbe stata intimata l’evacuazione. Così infatti è stato, ma fortunatamente era stato spostato tutto verso il Nasser Hospital di Khan Younis che adesso è funzionante. E’ stata una mossa che ha consentito di non perdere tutto il materiale, le medicine, eccetera eccetera.

Però è molto complicato spostare gli ospedali, in questo caso si è lavorato per tempo, in anticipo, si è detto “spostiamo tutto al Nasser Hospital” perché era un ospedale che strategicamente si voleva riattivare e così è successo, però non è sempre possibile. Per esempio l’altro giorno hanno ricevuto l’ordine di evacuazione dell’European Hospital di Khan Younis ed hanno spostato quello che era possibile tra materiali, pazienti etc. con poco tempo a disposizione… Ma dato che l’unico ospedale rimasto in piedi è il Nasser che è già oberato, ti lascio immaginare quali siano le problematiche relative ad uno spostamento di pazienti e materiali.

L’unico altro ospedale funzionante è Al-Aqsa, nella zona centrale della Striscia: ormai si iniziano davvero a contare sulle dita di una mano quindi è dura. Si cerca anche di rispondere coprendo i buchi con gli ospedali da campo delle ONG che prima erano a Rafah nella zona costiera mentre adesso sono soprattutto a Deir al-Balah, nella zona di Zawaida.

La linea del fronte che si muove complica ulteriormente la situazione, dato che avere la green light di Israele [il permesso ndr] per un ospedale da campo e poi allestirlo e attivarlo richiede molto tempo. Non è che Israele da un giorno all’altro ti dice sì, a volte passano anche due mesi quindi è molto complesso soprattutto per gli ospedali.

Per gli ambulatori come dicevo è un po’ più semplice, l’ambulatorio può essere attivato una volta che hai l’elettricità, l’acqua, i servizi igienici e sistemi logisticamente l’edificio, mentre un ospedale richiede molto più lavoro.

D: Ci puoi spiegare qual è la pressione psicologica rispetto a una costante minaccia di morte? Come hai detto prima, in teoria gli ospedali, sia quelli da campo che quelli ufficiali, non dovrebbero essere sotto minaccia, ma poi avviene il contrario. Come vivete voi sanitari il fatto di stare in una zona di guerra dove siete anche voi un target?

R: Diciamo che già prima di partire si ricevono tutte le informazioni del caso. Quindi la maggior parte delle organizzazioni organizza dei briefing in cui partecipano delle persone che ti spiegano il contesto. Parti informato insomma, anche a me avevano spiegato: “Guarda che vai in uno dei posti più pericolosi al mondo, non c’è veramente un luogo sicuro anche se noi facciamo del nostro meglio per garantire la sicurezza degli operatori”.

Però così è: quando accetti vai con questa consapevolezza, soprattutto adesso che il confine è chiuso quindi anche l’uscita è complicata.

Ci sono stati colleghi che alla fine non hanno accettato questa missione, non se la sono sentita.

Se vuoi è una lotta interna, nel senso che da un lato vuoi fare il tuo lavoro ed essere in prima linea, dall’altro sai che stai andando in un posto in cui ci sono poche regole e in cui non c’è veramente un luogo sicuro: mettendo sul tavolo il tutto è difficile prendere una decisione.

Anche chi non è partito ha scelto con un peso importante sul cuore, ma Gaza è uno di quei posti in cui vivi sempre allerta. Non c’è mai riposo, non c’è mai una pausa né di giorno né di notte: i bombardamenti e le esplosioni sono continue.

Siamo tutti un po’ sulla stessa barca, ma con la differenza che il personale espatriato poi a un certo punto torna a casa, mentre il personale palestinese e la popolazione rimane lì, senza al momento una via di scampo, senza una luce alla fine del tunnel.

Quindi sì, non è facile, si vive con la paura, che secondo me, è ciò che anche che un pò ti salva. Non siamo dei robot ed è impossibile non avere paura stando a Gaza in questo momento: se non la provi allora hai un tuo problema di fondo. Incroci le dita anche durante i viaggi in auto. Sai che quello è un momento un po’ più rischioso e speri sempre che a pilotare quel drone che ti segue immancabilmente non ci sia un estremista psicopatico: essendoci poche regole non sai mai chi hai sopra la testa!

D: Provo a farti una domanda rispetto alle prime nottì passate lì. Di solito, le prime notti, sono anche quelle in cui si realizza dove si è e ciò che potrebbe succedere. Come le hai vissute, che pensieri ti venivano in mente?

R: Non è facile. Di sicuro non si dorme bene.  Le prime notti, quando vai a dormire e poi ti svegli perché magari c’è stata un’esplosione, senti tremare la terra, le pareti, non è semplice, soprattutto all’inizio, poi quasi ti abitui. Ti abitui anche al rumore del drone che è costante, alle esplosioni vicine o alle mitragliate… ti abitui anche a quei suoni e a quelle cose. Però è ovvio che soprattutto all’inizio hanno un impatto forte!

D: So che tu sei stata anche in altre zone di guerra. Quali sono, secondo te, le differenze principali tra il conflitto di Gaza e altre zone di guerra? Se ci sono o le hai percepite?

R: Secondo me la differenza principale sta nel fatto di non avere mai una tregua, mai una pausa. Capisci presto che sia di giorno sia di notte comunque la violenza è continua, non c’è mai una tregua, anche solo banalmente un momento di silenzio in cui non c’è un drone, non c’è una bomba che cade, non c’è un missile lanciato, non c’è un jet che passa. Insomma la guerra è continua, non ci sono retrovie.  Inoltre devi convivere con la realtà di non avere una via d’uscita perché lì è tutto completamente chiuso, come una prigione a cielo aperto. E’ uno spazio minuscolo: 40 chilometri in lunghezza e 12 in larghezza nel punto più ampio! Ci si rende conto cos’è la mancanza di libertà, capisci che ci si prende gioco delle persone: Israele commette delle azioni solo per dimostrare che la vita di quelle persone in realtà è nelle loro mani. Per esempio utilizzano i cannoni contro barchette da pesca che non stanno facendo nient’altro che pescare. Magari ne affondano una, un’altra la mancano di pochissimo, semplicemente per dimostrare che effettivamente il controllo è loro, non lo fanno per un altro motivo, lo sanno che quella barchetta sta solo pescando qualche pesce. Insomma, si lavora in un contesto in cui alla popolazione viene dato sempre il messaggio che c’è qualcun altro che controlla la loro vita. Ci sono questi giochi di potere per fare capire alle persone che sono in questa prigione e da lì non se andranno. Vengono spinti in direzioni diverse in uno spazio sempre più piccolo, e si capisce che tutte le decisioni su di loro vengono prese da qualcun altro.

Inoltre, c’è il fatto che è un conflitto senza regole perché quando anche gli operatori umanitari non sono più al sicuro due domande te le fai.

Io appunto ho lavorato in altri conflitti e mi è capitato solo una volta in cui effettivamente gli operatori umanitari non erano i benvenuti. Invece nella maggior parte degli altri contesti c’era un equilibrio tra i contendenti, diciamo c’erano delle regole che venivano tra virgolette rispettate. Invece a Gaza mi è sembrato che queste regole non fossero veramente rispettate.

D: Ecco, rispetto a ciò che racconti quali sono le conseguenze del blocco degli aiuti umanitari (cibo, acqua, carburante) sulla salute delle persone gazawi?

R: Le conseguenze sono sicuramente che queste persone stanno mangiando scatolame o cibo spazzatura. Sono in aumento tutta le malattie gastrointestinali, soprattutto adesso che è estate, ci sono 40 gradi e la popolazione vive in tende ammassati lungo la zona costiera e non ci sono servizi igienici.

L’acqua che si beve è desalinizzata, cioè depurata e filtrata, ma non entrando il carburante diventa anche difficile averla.

Il carburante è anche fondamentale per gli ospedali perché non c’è elettricità a Gaza, quindi tutto funziona con i generatori.

Infatti è successo che in alcuni ospedali come Al-Aqsa i pazienti venissero ventilati a mano per delle ore perché erano senza corrente elettrica, quindi devi intervenire manualmente sui pazienti in rianimazione per non lasciarli morire.. e quindi stai togliendo mani e personale per altri pazienti perché se sei obbligato a star lì 3 ore a ventilare col pallone Ambu non puoi dedicare tempo ad un altro paziente.

Riguardo al cibo: fanno entrare camion commerciali che trasportano generi non di prima necessità, per esempio la Coca Cola.

Anche in questo modo viene dato un messaggio alla popolazione.

Medicinali ne entrano ben pochi quindi scarseggiano insieme al materiale per le medicazioni, alle medicine per i pazienti cronici e così via. Ad un certo punto, se il confine non riaprirà si arriverà ad una catastrofe e non c’è bisogno di un miracolo, bisognerebbe riaprire semplicemente il valico di Rafah da cui precedentemente i rifornimenti entravano anche se non in quantità elevata. Dal lato di Kerem Shalom, quindi da Israele, non sta entrando praticamente nulla.

Quindi è importante continuare a spingere per la riapertura perché se non entrano cibo acqua, medicine e carburante è chiaro che le conseguenze diventeranno sempre più impattanti sulla popolazione.

D: Puoi raccontarci qual è la giornata a Gaza di un sanitario, una persona che lavora come te. e invece qual è la giornata di una/un gazawi.

R: Per i sanitari molto dipende da come si muove la linea del fronte e di conseguenza come si muove la popolazione, per esempio se arrivano ordini di evacuazione.

La mia giornata tipo era tra l’ufficio per discutere con il Ministero della salute e con le altre organizzazioni umanitarie: lavoravo sempre in base ad un contingency plan, cioè con un piano A, B, C e pure D per poter spostare gli ambulatori o per poter magari spostare le attività.

Poi ovviamente davo una mano negli ospedali supportati da noi soprattutto nei momenti di afflusso massivo di feriti perché comunque lì c’è bisogno di esserci.

Facevamo anche una distribuzione d’acqua: abbiamo dovuto diminuire questo servizio perché non avevamo abbastanza carburante, ma continua a funzionare anche se non come vorremmo.

D: Avevate un desalinizzatore?

R: Sì, noi avevamo dei camion pieni d’acqua desalinizzata e filtrata.

D: Dove alloggiavate voi operatrici umanitarie?

R: All’inizio abitavamo in una casa che era iper-affollata: era un ex sala per matrimoni tipo salone ricevimenti riadattato, suddivisa in più piani.

Ci siamo poi spostati perché eravamo tanti quindi ci siamo divisi in due case con delle camere condivise e in una c’era la possibilità anche di prepararci il nostro pasto: invece nell’altra non si poteva cucinare quindi i responsabili fornivano pasti cucinati fuori.. infatti abbiamo avuto problemi gastrointestinali. A livello igienico sanitario non avevamo tantissime docce, soprattutto nella prima casa. Ovviamente ti lavi con l’acqua salata perché era l’unica disponibile. Per bere avevamo questa acqua filtrata: ma anche se desalinizzata, il gusto del sale rimane comunque. Ad ogni modo, considerando il contesto, il tutto era accettabile.

D: Questi edifici erano abitati solo da persone delle ONG o anche da palestinesi?

R: No, solo delle ONG. Ogni ONG ha il suo compound ed Israele ha le coordinate GPS, conosce chi siamo e sa chi c’è dentro e non dovrebbe bombardare.. Intorno al nostro compound tantissime persone si erano posizionate con le tende perché in ogni caso il fatto di avere un ONG lì significava che probabilmente l’area lì intorno non sarebbe stata attaccata e costituiva un buon rifugio.

La stessa cosa succede anche negli ospedali: le persone molte volte posizionavano le tende anche nel parcheggio, oppure c’erano persone non malate che stavano in ospedale e questo va capito, se non hai un posto dove andare e hai paura vai lì, però certamente questo crea ancora più congestione in un ospedale che già è super pieno.

Per quanto riguarda un gazawi, la giornata tipo è una giornata dura, nel senso che è fatta più che altro di tante attese.

Se devi andarti a prendere l’acqua devi farti ore e ore di attesa, se devi andare in un ambulatorio, ricevere cure mediche uguale.

Se vai in ospedale perché magari appunto rimani vittima di un’esplosione, di una sparatoria o di quant’altro comunque anche lì è una corsa ed è super congestionato. Le persone subiscono anche l’obbligo di doversi spesso spostare o evacuare, quindi ci sono famiglie che si sono spostate dieci-tredici volte. Ogni volta devi rimanere allerta, rimanere sul pezzo, riprendere tutte le tue cose e andartene.

Una vita perennemente in attesa o di cibo, di acqua e di salute o comunque di spostamento.

Per tutte le persone che vivono nelle tende, soprattutto lungo la costa, non ci sono servizi: è una vita dura, adesso ci sono 40 gradi e magari ci sono trenta persone per tenda.

D: Abbiamo parlato di Rafah che si trova a sud, invece, nella zona nord attualmente com’è la situazione? C’è comunque ancora una parte di popolazione che ha deciso di rimanere nonostante le continue spinte, oppure invece è quasi del tutto abbandonata, se non da guerriglieri o resistenza?

R: No, no nel nord c’è ancora un sacco di popolazione.

Il problema della zona nord è che le persone che mesi fa hanno deciso di rimanere lì, di non spostarsi al momento non hanno più maniera di evacuare cioè non è più possibile perché il nord e il centro della Striscia sono separati dal Wadi Gaza che è controllato e bloccato da Israele.

Qualche convoglio umanitario è stato fatto, ma poca roba perché è un viaggio molto lungo e pericoloso. È molto complicato andare lì e siamo quasi ciechi per quanto riguarda le zone a nord. Sappiamo che gli attacchi sul nord continuano in diverse aree e la popolazione non può spostarsi da lì, nel senso che Israele anche quando manda messaggi o ordini di evacuazione invita proprio la gente a non andare verso il nord perché tanto non c’è maniera di passare. E quelli che cercano di venire via dal nord vengono bloccati. E’ come se la popolazione fosse divisa in due, centro-sud e nord.

Una mia collega è riuscita ad andare nella zona nord con un convoglio e mi ha detto che non ha mai visto una devastazione così grande nella sua vita. Tutto è raso al suolo, la popolazione è ancora lì però non sanno più cosa fare o dove spostarsi. Gli ospedali rimasti in piedi sono pochi e cercano di rispondere ai bisogni, ma è molto difficile: anche solo riuscire ad evacuare i feriti dal nord alla zona centro è praticamente impossibile. Certo è che c’è ancora popolazione lì e noi abbiamo anche dei colleghi che sono ancora lì, che non sono riusciti a passare e continuano a rimanere lì sperando un giorno di riuscire poi a spostarsi. E ci sono colleghi che erano rimasti lì per rimanere con la loro famiglia che non voleva lasciare la propria casa, però ormai vorrebbero venire giù, ma non si può perché è proprio fisicamente impossibile.

D: Come organizzazioni, invece, non riuscite ad avere dei presidi a nord?

R: Ci sono dei presidi, qualcosina c’è. Noi adesso abbiamo ancora un ambulatorio attivo che lavora anche un po’ da stabilizzazione dei casi di traumi. Ci sono altre organizzazioni che hanno ancora delle cosette attive. È chiaro che non è facile. Noi questo ambulatorio al nord ce l’avevamo da anni, quindi semplicemente è stato trasformato, riattivato eccetera. Però è difficile attivare e creare delle cose se non ci puoi andare, neanche solo per fare una valutazione.

Quando arriverà questo fatidico cessate il fuoco l’idea sarà poi sicuramente di andare verso il nord, di fare una valutazione appropriata e poi di dare una risposta anche in quella parte lì perché, al momento, è completamente tagliata fuori.