articolo pubblicato il 31/08/24 su The Guardian
Israele accusato di aver utilizzato una bambina di 10 anni come scudo umano durante il suo devastante attacco nel territorio palestinese occupato
Quando mercoledì sera i soldati israeliani sono arrivati alla modesta casa lungo un vicolo del campo di Nur Shams, hanno fatto uscire le donne e quattro bambini in strada, ma hanno trattenuto Malak Shihab.
Hanno tolto la museruola al loro cane e questo si è diretto verso la minuta bambina di 10 anni annusandola. Terrorizzata, ha supplicato di stare con la madre, ma i soldati sembravano avere una sola frase in arabo, con accento straniero: “Apri le porte“.
Il plotone l’ha spinta fino a ciascuna delle porte della casa di sua zia, secondo il racconto di Malak, mentre loro rimanevano in fila dietro di lei, pronti a sparare a chiunque potesse essere dentro.
Una porta non si aprìva e, nella disperazione di obbedire, la ragazza ricorda di averci picchiato sopra con la testa.
“Non so perché. Volevo solo che si aprisse“, ha detto sabato, accompagnata dai suoi genitori mentre ripercorreva le sue azioni nella prima notte dell’incursione israeliana.
Alla fine la porta è stata forzata con il calcio del fucile, lasciando un buco sopra la maniglia, ma dall’altra parte non c’era nessuno e i soldati hanno continuato a cercare.
Le IDF hanno respinto le accuse della famiglia Shihab.
“Tali eventi sono incoerenti con il codice di condotta delle IDF e, secondo un’indagine preliminare, questa storia è inventata e non è mai accaduta“, ha affermato un portavoce.
Accuse simili erano state mosse durante una precedente incursione a Nur Shams ad aprile, e anche in questo caso erano state negate dall’esercito.
Nella breve vita di Malak questa è stata la sua esperienza più terrificante di un raid israeliano, ma tutt’altro che la prima. Il campo di Nur Shams sul confine orientale della città di Tulkarem in Cisgiordania, è noto per la sua militanza. Ha una sua forza armata, la brigata Nur Shams, un mix di seguaci della Jihad islamica, Hamas e altri gruppi radicali [della resistenza, ndt].
Le incursioni nel campo e in altre due roccaforti dei militanti [in realtà, città e campi profughi, ndt] in Cisgiordania, Jenin e il campo di el Far’a, sono state una ripetizione particolarmente feroce di uno schema che si è ripetuto nel corso dei decenni.
Ogni volta, i soldati vanno a cercare i militanti e di solito ne uccidono alcuni, lasciando dietro di sé una scia di devastazione e civili traumatizzati prima di ritirarsi. Il caos viene ripulito e i combattenti caduti vengono rapidamente sostituiti da militanti più giovani.
“Tagliare l’erba” è la frase che alcuni generali e opinionisti israeliani chiamano così, e la frase cinica viene ripetuta in Cisgiordania dai palestinesi con ironia, perché sono ben consapevoli che “l’erba” sono loro.
Nel corso dell’incursione della scorsa settimana, l’IDF ha messo all’angolo e ucciso il leader ventiseienne della brigata Nur Shams, Mohamed Jaber, meglio conosciuto come Abu Shujaa, insieme a quattro dei suoi combattenti, che secondo Israele avrebbero altrimenti attaccato gli israeliani. I cinque uomini sono morti [sono stati uccisi, ndt] in uno scontro a fuoco in una moschea a 50 metri dalla casa di Shihab.
La morte di Abu Shujaa ha rappresentato un successo significativo per l’IDF, che aveva bisogno di notizie positive dopo 10 mesi di bombardamenti su Gaza senza aver distrutto Hamas. Le forze armate hanno imparato la lezione dell’attacco del 7 ottobre colpendo per prima, hanno detto i militari israeliani.
Anche i danni arrecati a Nur Shams sono stati drammatici.
Il campo fu fondato nel 1952 per gli sfollati della guerra del 1948, la Nakba, il disastro originario della Palestina. Nel distretto di al-Manshiya, nel cuore del campo, la maggior parte delle case mostrava segni di danni e le strade erano state trasformate in solchi disseminati di macerie dai bulldozer dell’IDF, inviati per primi per eliminare eventuali bombe nascoste ai lati della strada [a detta dell’esercito israeliano, ma in realtà distruggendo deliberatamente le strade e le infrastrutture con bulldozer appositamente attrezzati, ndt].
Ogni volta che le truppe sono entrate, sempre più bambini a Nur Shams sono stati esposti alla violenza. Nell’ultimo raid, nove mesi fa, Malak è svenuta a causa del fumo di un’esplosione fuori dalla casa di famiglia. Quindi questa volta, suo padre, Mohammed, ha mandato lei, sua madre e i suoi fratelli a casa di sua sorella. Ma non è ugualmente stata al sicuro.
Tre giorni dopo, alla domanda su come si sentisse, Malak ha detto: “Spaventata ma anche arrabbiata. Non so perché mi sento arrabbiata, ma lo sono e basta”.
Venerdì i soldati hanno terminato l’ultimo raid e si sono ritirati [a Jenin invece l’attacco è ancora in pieno svolgimento, l’IOF ha inviato rinforzi e le forniture di cibo, acqua ed elettricità continuano ad essere bloccate,¹ ndt], e da sabato la bonifica è in pieno svolgimento. Il panificio locale ha riaperto vendendo sacchetti di plastica di pita o panini.
Il fornaio, che ha voluto essere chiamato Abu Jihad², ha ricordato come i maschi della sua famiglia, giovani e vecchi, erano stati radunati nelle prime ore del mercoledì mattina e portati con le mani legate in un magazzino a un’estremità del campo. Lì sono stati interrogati sulla posizione della brigata e dei loro nascondigli di armi mentre venivano presi a calci e pugni .
“Non c’era pietà, nemmeno per i bambini. Perché prendere un ragazzino di 13 o 14 anni da casa sua e picchiarlo a sangue e rompergli il telefono?“ha detto il fornaio, riferendosi a suo figlio.
Fuori sulla strada, la principale arteria del campo, le ruspe stavano sgomberando l’asfalto distrutto e altri detriti, mentre i camion del cemento e quelli delle fogne procedevano a passo d’uomo in entrambe le direzioni. La compagnia telefonica aveva installato un chiosco sotto un parasole per supervisionare le riparazioni delle linee.
I piccoli vicoli che conducono in cima alla collina, nel campo di Nur Shams, sono rimasti intasati da decenni di danni e dal trauma immediato di questo ultimo, distruttivo attacco.
I teloni neri sospesi, uno scudo dagli occhi elettronici dei droni israeliani, hanno rafforzato il senso generale di cupezza.
“Ho vissuto la guerra dei sei giorni (nel 1967) e due intifade, ma non ho mai visto niente del genere“, ha detto Um Raed, una donna di 72 anni seduta fuori in una strada di case distrutte e bruciate. “Cosa possiamo fare? Siamo pazienti, ma siamo anche molto stanchi“.
In un ingresso di casa non lontano, i vicini osservavano una distesa di sangue secco, l’inizio di una larga striscia rosso ruggine che conduceva all’interno di una casa.
Era il sangue di Ayed Abu al-Haija, un uomo di 63 anni con problemi di salute mentale che aveva difficoltà a comprendere la gravità della minaccia che lo circondava. La nipote lo aveva visto in piedi sulla porta di casa da una finestra al piano superiore mercoledì pomeriggio e aveva insistito affinché entrasse.
Ma poi ha sentito uno “strano rumore” e quando è scesa al piano di sotto, Ayed era sdraiato sulla schiena con un pezzo del cranio mancante. Sua nipote Haytham dice che è stato colpito da un cecchino israeliano [e da chi, se no? ndt] che sparava da una finestra in alto in fondo alla strada. Il ministero della Salute palestinese stima che 20 palestinesi siano stati uccisi nei raid della scorsa settimana, ma non ha fatto distinzioni tra civili e miliziani.
Nella sua vita e nella sua morte, Ayed Abu al-Haija ha incarnato un ciclo di violenza che, a ogni svolta, ha allontanato la regione da una soluzione pacifica. Era stato imprigionato e brutalizzato [da Israele, ndt] da giovane negli anni ’70, e la sua mente non si era mai ripresa. Ciò lo ha lasciato vulnerabile al proiettile di un cecchino mezzo secolo dopo.
Secondo Haytham, la colpa risale a molto più tempo prima ed è da attribuire agli inglesi, che avevano promesso agli ebrei terre che non potevano promettere e il cui governo sulla Palestina dal 1920 al 1948 diede vita allo Stato di Israele.
“La nostra tragedia è vostra responsabilità. Questo sangue è sulle mani dei britannici“, ha avvertito.
Nur Shams mostra il suo trauma ricorrente come anelli su un albero. Il percorso dalla casa di Abu al-Haija fino alla strada principale è fiancheggiato da foto di membri martirizzati della Brigata Nur Shams, ognuno dei quali brandiva un fucile. È probabile che nei prossimi giorni accanto a loro saranno affisse foto di Abu Shujaa e degli altri quattro combattenti uccisi la scorsa settimana.
In fondo al vicolo sedeva il futuro più probabile del campo. In un semicerchio di sedie di plastica, circondato da uomini e ragazzi, c’era un giovane membro della brigata, con berretto e maglietta nera, il suo fucile d’assalto M-16 nero in equilibrio sulle ginocchia. Non poteva avere più di 20 anni ed era pallido per l’insonnia e la mancanza di sole, la sua pelle bianca era segnata sul lato destro da lividi lasciati dai detriti di un’esplosione di granata, ha detto. Era traboccante di fiducia.
“La resistenza è più forte che mai“, ha insistito.“Ogni volta che fanno un’incursione, diventa più forte. Ecco perché ogni incursione è peggiore della precedente. Abu Shujaa se n’è andato, pietà per la sua anima, ma 100 combattenti prenderanno il suo posto. Come pensi che cresceranno i bambini qui? Prenderanno un fucile e andranno sul campo di battaglia“.
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