Mentre i ministri, i generali e gli accademici israeliani auspicano una nuova fase decisiva della guerra, ecco come potrebbe essere l’Operazione “Fame e Sterminio”.
Meron Rapoport 17 settembre 2024
Pubblicato in origine su 972.mag
Pubblicato in origine su 972.mag
La data è ottobre, novembre o dicembre 2024, o forse l’inizio del 2025. L’esercito israeliano ha appena lanciato una nuova operazione in tutto il nord di Gaza: “Operazione Ordine e Pulizia”, la chiameremo. L’esercito ordina l’evacuazione temporanea di tutti i residenti palestinesi a nord del corridoio Netzarim “per la loro sicurezza personale”, spiegando che “si prevede che l’IDF intraprenderà azioni significative a Gaza City nei prossimi giorni e vuole evitare di danneggiare i civili”.
L’ordine è simile a quello emesso dall’esercito il 13 ottobre 2023 agli oltre 1 milione di palestinesi che all’epoca vivevano a Gaza City e nei suoi dintorni. Ma è chiaro a tutti che questa volta Israele sta progettando qualcosa di completamente diverso.
Sebbene il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant mantengano la bocca chiusa riguardo ai reali obiettivi dell’operazione, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, così come altri ministri dell’estrema destra, li dichiarano apertamente. Qui citano un piano che il “Forum dei comandanti e combattenti della riserva”, guidato dal Generale (della riserva) Giora Eiland, ha proposto solo poche settimane fa: ordinare a tutti i residenti del nord di Gaza di andarsene entro una settimana per poi imporre un assedio totale all’area, compresa la chiusura di tutte le forniture di acqua, cibo e carburante, fino a quando coloro che rimangono si arrenderanno o moriranno di fame.
Anche altri eminenti israeliani, negli ultimi mesi, hanno invitato i militari a effettuare uno sterminio di massa nel nord di Gaza. Il prof. Uzi Rabi, ricercatore senior dell’Università di Tel Aviv, in un’intervista radiofanica del 15 settembre ha dichiarato: “Bisogna evacuare l’intera popolazione civile dal nord: chiunque rimanga lì sarà legalmente considerato come terrorista e sottoposto a una procedura di morte per fame o di sterminio”. Già in agosto, secondo un rapporto di Ynet, i ministri del governo avevano iniziato a fare pressioni su Netanyahu affinché “ripulisse” il nord di Gaza dai suoi abitanti.
Un’altra proposta è stata avanzata a luglio da diversi accademici israeliani, dal titolo “Da un regime omicida a una società moderata: la trasformazione e la ricostruzione di Gaza dopo Hamas”. Secondo questo piano, presentato ai decisori israeliani, la “sconfitta totale” di Hamas è una precondizione per avviare un processo di “deradicalizzazione” dei palestinesi a Gaza. “È importante che anche l’opinione pubblica palestinese abbia un’ampia percezione della sconfitta di Hamas”, sostengono gli autori, aggiungendo: “Il ‘primo soccorso’ può iniziare nelle sole aree epurate da Hamas”. Uno degli autori della proposta, il dottor Harel Chorev, ricercatore senior presso il Centro Moshe Dayan dove lavora anche Rabi, ha espresso pieno sostegno al piano di Eiland.
Ma torniamo al nostro scenario: è iniziata l’“Operazione Ordine e Pulizia” e, nonostante gli ordini di evacuazione dell’esercito, circa 300.000 palestinesi rimangono tra le rovine di Gaza City e dei suoi dintorni, rifiutandosi di andarsene. Forse restano perché hanno visto cosa è successo ai loro vicini che se ne sono andati all’inizio della guerra, credendo che si trattasse di un’evacuazione temporanea, e che ancora oggi vagano per le strade del sud di Gaza senza un posto sicuro dove rifugiarsi. Forse perché temono Hamas, che invita i residenti a rifiutare gli ordini di evacuazione israeliani. O forse perché sentono di non avere più nulla da perdere.
In ogni caso, l’esercito impone un blocco totale entro una settimana a tutti coloro che rimangono nel nord di Gaza. I combattenti di Hamas – il documento di Eiland stima che ne siano rimasti 5.000 nel nord, ma nessuno conosce veramente il loro vero numero – rifiutano di arrendersi. Sulla televisione internazionale e sui social media, le persone di tutto il mondo guardano la città di Gaza consumata dalla fame di massa. “Preferiremmo morire piuttosto che andarcene”, dicono i residenti ai giornalisti.
Sulla televisione israeliana i commentatori non sono convinti che una mossa del genere sarà decisiva per vincere la guerra. Ma concordano sul fatto che una “campagna di fame e di sterminio” è preferibile all’esercito che continua a trascinare i piedi a Gaza. Alcune voci negli studi mettono in guardia dal potenziale danno alle pubbliche relazioni di Israele, ma nonostante ciò il piano ottiene il sostegno della maggioranza dell’opinione pubblica ebraico-israeliana. I cittadini palestinesi di Israele, che intensificano le loro proteste contro il genocidio, vengono arrestati anche solo per aver pubblicato post al riguardo online, e la polizia reprime con la forza le manifestazioni della sinistra radicale.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken esprime preoccupazione, afferma che Washington è impegnata a favore dell’integrità territoriale di Gaza e della soluzione dei due Stati, e avverte che quest’ultima campagna potrebbe sabotare i negoziati per un accordo sugli ostaggi, ma Netanyahu resta impassibile. Sotto la pressione della destra, che vede nell’espulsione degli abitanti di Gaza City l’occasione per radere completamente al suolo l’area e costruire insediamenti sulle rovine, l’esercito inizia la fase di “sterminio” delineata da Rabi.
Dal momento che l’esercito ha affermato che i civili possono lasciare il nord di Gaza – anche se i soldati sparano e uccidono a caso i civili palestinesi che tentano di evacuare – chiunque rimanga in città viene trattato come un terrorista. Tale strategia è in linea con ciò che il tenente colonnello A., comandante dello squadrone di droni dell’aeronautica israeliana, ha detto a Ynet in agosto a proposito dell’operazione di salvataggio degli ostaggi nel campo di Nuseirat: “Chi non è fuggito, anche se era disarmato, per quanto ci riguardava, era un terrorista. Tutti quelli che abbiamo ucciso meritavano di essere uccisi”.
Gaza City è completamente distrutta e tra le rovine giacciono i corpi di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi. Nessuno conosce il numero esatto, perché l’area rimane una “zona militare chiusa”. L’operazione Ordine e pulizia è stata coronata da un successo. L’esercito, come proposto nel piano Eiland, si prepara a replicare operazioni simili a Khan Younis e Deir al-Balah. In coordinamento con i comandanti sul campo, apparentemente senza l’approvazione dello Stato Maggiore Generale, un rivitalizzato movimento per la colonizzazione di Gaza – che da mesi attende dietro le quinte il momento buono – inizia a fondare le prime nuove comunità israeliane in aree che sono state “epurate” dai palestinesi.
Uno scenario probabile ma non inevitabile
Non vi è alcuna certezza che questo scenario si concretizzi. Ciò può essere ostacolato in vari momenti: l’esercito potrebbe far capire di non essere interessato all’occupazione totale della Striscia di Gaza, né al ristabilimento di un governo militare nella zona. L’esercito è consapevole che un’operazione su così vasta scala potrebbe portare all’esecuzione dei rimanenti ostaggi, come è accaduto a Rafah, e non vuole essere responsabile del loro omicidio. Allo stesso modo teme che un’operazione su così vasta scala a Gaza possa innescare una risposta più forte da parte di Hezbollah, e quindi un’intensa guerra su due fronti, o forse più.
Nonostante tutta la clemenza che l’amministrazione americana ha dimostrato nei confronti delle azioni genocide di Israele a Gaza – affamando e annientando decine di migliaia di palestinesi – la fase successiva potrebbe essere troppo anche per il presidente (autodefinitosi “sionista”) Joe Biden e per la candidata presidenziale Kamala Harris, che parla di “sofferenza palestinese”. Questa potrebbe essere la mossa che costringerà la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) a dichiarare che Israele sta commettendo un genocidio e ad accelerare la Corte Penale Internazionale (ICC) ad emettere mandati di arresto, e non solo per Netanyahu e Gallant.
I paesi europei, che finora hanno esitato a sanzionare Israele, potrebbero andare all-in. Netanyahu potrebbe concludere che il prezzo internazionale di un’operazione del genere sarà troppo alto – al diavolo i desideri dei suoi alleati di destra.
Anche [parte della, ndt] società israeliana potrebbe porre ostacoli all’attuazione del piano. Come reso evidente dalle manifestazioni di massa delle ultime settimane, parte dell’opinione pubblica ebraico-israeliana ha perso fiducia nelle promesse del governo di “vittoria totale” a Gaza o nell’idea che “solo la pressione militare libererà gli ostaggi”. Guidati dalle famiglie degli ostaggi – che si sono radicalizzati dopo la recente esecuzione dei sei ostaggi da parte di Hamas in un tunnel a Rafah – centinaia di migliaia di israeliani, a quanto pare, vogliono non solo vedere gli ostaggi tornare a casa, ma anche mettersi la guerra alle spalle. Il piano Rabi-Eiland, che certamente prolungherà la guerra a Gaza e probabilmente metterà una pietra tombale sul ritorno degli ostaggi rimasti, potrebbe essere respinto da centinaia di migliaia di manifestanti proprio per queste ragioni.
Dobbiamo però anche ammettere che lo scenario che ho delineato sopra non è inverosimile. Dal 7 ottobre, la società israeliana ha subito un processo accelerato di disumanizzazione nei confronti dei palestinesi, ed è difficile vedere l’esercito rifiutarsi in massa di portare avanti una tale campagna di sterminio, soprattutto se presentata per fasi: prima costringendo ad abbandonare la maggior parte dei residenti, seguito dall’imposizione di un assedio e solo allora dall’eliminazione di coloro che restano.
Non si tratta semplicemente di una questione di vendetta per le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre. Nella logica distorta che regola la politica israeliana nei confronti dei palestinesi, l’unico modo per ripristinare la “deterrenza” dopo l’umiliazione militare del 7 ottobre è schiacciare completamente la popolazione palestinese, comprese le sue città e le sue istituzioni.
Per alcuni, potrebbe essere facile liquidare le proposte israeliane di “finire il lavoro” nel nord di Gaza come una sparata retorica genocida, difficilmente realizzabile. Ma queste proteste sono state concepite da Eiland, Rabi e altre persone influenti – non solo da quelle del circolo “messianico” di Ben Gvir e Smotrich. E indipendentemente da ciò che accadrà nei prossimi mesi, il fatto stesso che si facciano apertamente proposte di affamare e sterminare centinaia di migliaia di persone e che queste siano oggetto di dibattito dimostra esattamente a che punto si trova oggi la società israeliana.
Share this post: